Mi è stato chiesto un piccolo contributo per GV. Lo faccio con pudore, pensando alle molte parole che si buttano via in questi giorni e alle troppe persone che stanno soffrendo. Fino alla morte. Vorrei potervi dire parole che giungono fino al cuore, come una carezza, come un sorso d’acqua che disseta una gola riarsa. Stiamo attrezzandoci per i tempi lunghi, e non dobbiamo lasciarci prendere dallo sconforto. Verranno tempi migliori di questo, ma li dobbiamo in qualche modo anticipare, costruendoli fin da adesso. Con incrollabile fiducia. Vi propongo allora alcuni semplici pensieri, fra i tanti, che ho maturato, in questi giorni di prolungato silenzio. A Romena, vicino ad Arezzo, esiste una bellissima pieve, dove negli anni scorsi mi recavo spesso, costruita “tempore famis”, come si legge sul capitello di una colonna, appena entrati. La chiesa è stata edificata nel periodo di una grave e prolungata carestia, nel 1152.
Si dice che sia stata realizzata con grande sforzo di manovalanza locale come forma massima di preghiera e di sacrificio, per far passare il periodo di carestia. Materiali poveri, pietre di scarto, con le quali non avrebbero mai costruito i palazzi dei signori, sono stati impiegati per edificare una chiesa di umile e straordinaria bellezza.
Così anche noi: non siamo chiamati a costruire cattedrali ma, in questo straordinario e drammatico “tempo di fame”, siamo tutti convocati a portare la nostra piccola pietra, apparentemente senza valore, per costruire rapporti migliori, una società migliore di quella nella quale siamo vissuti fino ad ora. Questo tempo di sofferenza può diventare un tempo per nascere nuovamente.
Il secondo pensiero è proprio dedicato al tempo.
Veniamo da stagioni segnate dalla fretta, dalla superficialità, dalla ricerca egoistica di cose, da un avvilente individualismo, da una dilagante violenza che ha inferto ferite profonde alla madre terra e ha messo a rischio i rapporti umani, fin dentro le mura familiari. Dopo questa crisi, penso che nessuno di noi abbia voglia di ritornare alla “vita di prima”. Abbiamo il desiderio di un “vita nuova”. La rarefazione dei rapporti, che segna drammaticamente questi giorni, lo svuotamento delle nostre comunità – anche prima dell’espandersi del virus – la tragedia di chi muore da solo, senza una carezza e la vicinanza di chi l’ha amato, la solitudine di chi opera in prima linea, la paura di tanti anziani, la mancanza di certezze, facciano scaturire in noi energie nuove, che già esistevano, ma che erano in qualche modo sepolte sotto le macerie di una civiltà di massa, sotto parole d’ordine funzionali al sistema, ma incapaci di dare vita vera.
Nel silenzio di questi giorni sta nascendo la nuova creatura, stanno fiorendo energie insospettate. Proviamo allora a costruire la vita nuova con queste parole, spesso scartate e ritenute inutili: semplicità, verità, umiltà, attenzione, servizio, ascolto, amore, generosità, solidarietà… Ne verrà fuori – ne sono sicuro – una magnifica cattedrale dello spirito; e innalzeremo solide le colonne di una nuova umanità.
Il terzo pensiero è preso dalla vita di San Benedetto, il padre dei monaci in Occidente. All’inizio del suo cammino spirituale Benedetto, lasciata Roma, visse per tre anni in una «stretta e scabrosa spelonca», soffrendo non raramente la fame e la sete. Un giorno un prete, di nome Romano, lo raggiunse, gli portò del cibo e gli disse: «Oggi è Pasqua!». «Oh, sì, – rispose Benedetto – oggi è proprio Pasqua perché ho avuto la grazia di vedere te!» (Gregorio Magno, Vita di San Benedetto, Roma 1975, p.71-72). Pasqua è vedere il volto del fratello.
Quest’anno non sappiamo se potremo celebrare la Pasqua insieme alle nostre comunità, nei giorni stabiliti dal calendario. Temo di no. Allora vorrei esprimere un pensiero, forse difficile da capire, e che non verrà accolto da tutti.
La Pasqua è sempre stata celebrata come festa di popolo, e non vedo come potrebbe essere altrimenti. I nostri fratelli ebrei hanno vissuto la prima Pasqua la notte della partenza dall’Egitto, nella fretta di un evento mai pensato prima e nella gioia di una liberazione creduta impossibile. Poi, per quarant’anni, più niente. C’era il deserto da attraversare, luogo grande e terribile, terra sconosciuta, come il virus che ora fa paura a tutti; c’erano mormorazioni e infedeltà, idolatrie e ribellioni. Molti sono morti là dentro, sepolti nel deserto dell’amarezza.
La seconda Pasqua è stata celebrata quarant’anni dopo, nella pianura di Galgala, di fronte a Gerico, appena attraversato il Giordano. Il popolo è entrato nella Terra promessa e ne ha mangiato i frutti. Allora ha fatto festa.
Anche Gesù ha celebrato la sua Pasqua mangiando insieme ai suoi, la notte del giovedì santo. Non era da solo. E la Pasqua dei cristiani è sempre stata convocazione di popolo, non di sacerdoti. Forse dovremo imparare qualcosa di più dai nostri fratelli ebrei, in tutta la loro drammatica storia di esilio e di diaspora.
C’è una grande verità pasquale in tutto quello che stiamo vivendo come popolo, privati delle nostre liturgie. Lo dico con le parole di mons. Napolioni, vescovo di Cremona, ricoverato all’ospedale della sua città per l’infezione da Covid 19: «Occorre riscoprire la presenza del Signore, molto più puntuale, fedele e capillare delle forme a cui eravamo abituati. Il pensiero corre alla Settimana Santa, alla Pasqua. Al di là delle forme della tradizione c’è il mistero reale e presente del Cristo incarnato. E quindi, chi si prende cura dei fratelli è Cristo che si prende cura di Cristo. Questo è il vero nome di tutto ciò che accade». Nelle parole del vescovo c’è un invito pressante a partecipare alla via crucis del popolo, a condividere la sua passione, a portarne la croce, come il Cireneo. La passione di Cristo, la passione della Chiesa, è la passione del popolo.
Allora, quando sarà Pasqua?
Sarà Pasqua quando potremo vederci di nuovo e abbracciarci, cantare e piangere di gioia tutti insieme, dopo che avremo attraversato questo deserto.
Sarà Pasqua quando anche l’ultimo dei contagiati dal virus sarà passato al di là del Giordano, e sarà tornato a casa.
E speriamo che questo momento arrivi presto! Chissà con quanta forza riusciremo allora a cantare l’Alleluia!
La Pasqua è la gioia sul volto del fratello. E’ una lacrima asciugata. E’ ogni volta che perdoniamo, camminiamo insieme nella speranza, annunciamo la pace agli uomini. Allora anche il ritrovarci insieme nelle nostre chiese, appena sarà di nuovo possibile, avrà un significato diverso e avrà il profumo della novità.
Il profumo di una Pasqua vera.
Giorgio Scatto
priore della comunità monastica di Marango