In questi giorni le piazze di molte città italiane ed europee si sono riempite di manifestanti scesi per chiedere la pace a Gaza. Un grido nato dal dolore davanti a migliaia di vittime innocenti, dalla volontà di non restare indifferenti di fronte a una tragedia che continua a sconvolgere le coscienze. Manifestare, in una democrazia, è un diritto sacro: è la forma pubblica con cui i cittadini rendono visibile la loro coscienza e chiedono che la politica ascolti.
Eppure, troppo spesso, accade che queste manifestazioni, iniziate con i migliori propositi, degenerino in episodi di violenza: vetrine infrante, scontri con la polizia, lanci di oggetti, devastazioni urbane. Le cronache ci raccontano che accanto a chi marcia pacificamente, alza cartelli e invoca la pace, compaiono gruppi che scelgono la rabbia distruttiva. Così, il messaggio originario — forte, chiaro, condivisibile — rischia di annegare nel fragore dei vetri rotti.
La domanda allora è inevitabile: perché la protesta, così giusta nelle intenzioni, scivola spesso verso la violenza? Le ragioni sono diverse. C’è innanzitutto la componente emotiva: scendere in piazza non è mai un atto neutro, ma un’espressione di dolore, indignazione, rabbia. Quando la tensione cresce, basta poco per trasformare l’indignazione in scontro fisico. Poi ci sono gruppi minoritari che cercano deliberatamente lo scontro: i cosiddetti “black bloc”, frange estremiste, teppisti che non condividono davvero la causa, ma la usano come pretesto. Infine, non va sottovalutato il ruolo delle dinamiche di piazza: una scintilla, una provocazione, e la folla può trasformarsi in un fiume difficile da arginare.
Ma ogni volta che ciò accade, a perdere è la causa stessa. Perché la violenza offusca la legittimità del messaggio. Una marcia pacifica per Gaza, che parla al cuore e alla coscienza, colpisce l’opinione pubblica molto più di cento vetrine rotte. La forza morale della nonviolenza è sempre stata quella di conquistare simpatia, di smuovere coscienze senza armi, senza odio, senza distruzione. Gandhi e Martin Luther King lo hanno insegnato con la loro vita: la protesta nonviolenta ha una potenza dirompente perché non tradisce il messaggio che porta.
Il vero paradosso è che chiediamo la fine della violenza con le mani ancora sporche di violenza. E così non costruiamo ponti, ma nuovi muri. La pace, invece, nasce quando il cuore trova il coraggio di non lasciarsi imprigionare dalla rabbia: “è fragile come un bicchiere”, mi ripeto spesso, eppure è proprio quella fragilità che la rende preziosa.
Al contrario, le scene di devastazione offrono un alibi perfetto a chi vuole sminuire la protesta, a chi preferisce non ascoltare. Si sposta l’attenzione: non più Gaza, le vittime civili, i bambini sotto le macerie, ma i disordini in centro città.
Non più la pace, ma l’ordine pubblico. È un corto circuito che tradisce proprio chi è sceso in piazza per gridare il contrario.
E allora la responsabilità ricade anche su chi organizza: occorre preparare, vigilare, isolare chi cerca lo scontro. Serve leadership, serve disciplina, serve un patto di coscienza tra chi manifesta. Perché la protesta non è un urlo indistinto, ma un linguaggio politico e morale che chiede coerenza. Manifestare in pace significa difendere la propria causa, non indebolirla.
Non c’è nulla di più ingiusto di una guerra che spegne vite innocenti. E non c’è nulla di più contraddittorio che chiedere la fine della violenza ricorrendo alla violenza. Ogni volta che alziamo un pugno, perdiamo la possibilità di tendere una mano. Ogni volta che spezziamo un vetro, oscuriamo il volto dei bambini che vorremmo difendere.
Le piazze devono restare luoghi di testimonianza, non di devastazione. Devono essere scuole di democrazia, non palestre di rabbia. Solo così potranno davvero avere forza, credibilità, futuro. Perché la pace, se la vogliamo davvero, non la conquisteremo mai con i sassi e con i lacrimogeni, ma con gesti che abbiano il profumo del domani, il coraggio della speranza, la forza mite della verità.
Il grido per Gaza è un grido giusto, che merita ascolto. Ma se viene coperto dal rumore delle pietre e dei vetri, rischia di perdersi. È tempo che tutti — cittadini, organizzatori, istituzioni — si assumano la responsabilità di custodire la purezza di quel messaggio. Perché la pace, se la vogliamo davvero, comincia da come scegliamo di lottare per essa.
Roberto Donadoni
