«Il successo da record agli Europei di Roma? Dipende da due cose: che abbiamo i neo-italiani e che abbiamo imparato a sorridere». A condensare in una battuta le ragioni di un primato dell’atletica leggera italiana è Dino Ponchio.
78 anni, padovano di Cartura, da tre anni è presidente del Coni Veneto. Ma soprattutto, per una vita intera, è stato una delle anime dell’atletica leggera nel Paese. Direttore tecnico della federazione italiana di atletica leggera dal 1996 a 2001 e poi direttore generale fino al 2004, è stato fino al 2021 consigliere del presidente della Fidal.
La persona giusta, insomma, per capire come sia possibile che ai campionati europei tenutisi la scorsa settimana all’Olimpico l’Italia sia arrivata prima, con 24 medaglie, tra cui 11 ori. In una sola edizione degli Europei gli atleti italiani hanno vinto un quinto dei primi posti conquistati nelle precedenti 27 edizioni dei campionati; e hanno vinto otto volte più medaglie rispetto agli Europei di Zurigo, solo dieci anni fa. E hanno surclassato una nazione tradizionalmente super come la Germania, che cha conquistato “solo” dieci medaglie e un solo oro…
Un po’ maliziosamente e un po’ sottovoce qualcuno in realtà dice che quelli di Roma siano stati “campionatini”. Svolgendosi infatti un mese prima delle Olimpiadi, svariati atleti di altri Paesi non si sono presentati o, se hanno gareggiato, lo hanno fatto non ancora al top della forma. Gli italiani, invece, dato che erano in casa, a Roma, hanno messo in campo il meglio.
Professor Ponchio, è così? A Roma solo “campionatini”?
Più no che sì. A Roma abbiamo visto Duplantis che nell’asta può fare quello che vuole o il norvegese Warholm primatista del mondo e campione olimpico nei 400 ostacoli o gli altrettanto norvegesi fratelli Ingebrigtsen, che hanno vinto tutto dai 1500 ai 10000 metri, o la tedesca Malaika Mihambo che ha vinto il salto in lungo davanti alla nostra Iapichino… Insomma, non si può parlare di “campionatini”. Ciò non toglie che, è vero, fra poco più di un mese ci saranno le Olimpiadi e perciò qualcuno – in particolare i francesi, dato che i Giochi saranno a Parigi – si è tenuto qualche asso nella manica. Noi italiani abbiamo schierato di tutto e di più, ma svariati dei nostri sono in progress. Lo è lo stesso Jacobs e lo ha mostrato: fra un mese andrà meglio. Se poi, pur essendo in progress, è il primo in Europa, tanto meglio.
Si dice che vinciamo perché in Nazionale ci sono tanti neo italiani…
Quando facevo il tecnico nazionale, negli anni ’80 e ’90, invidiavo la Francia e la criticavo perché vinceva molto, anzi moltissimo, con i neo francesi. E noi non ne avevamo. Noi abbiamo aperto questa strada con Fiona May, una delle prime grandi figure di nuove italiane che ci hanno aiutato a vincere. Ma adesso abbiamo italiani di seconda generazione, totalmente italiani, che ci danno molte soddisfazioni. E ben vengano perché la società del terzo millennio è così, è multietnica. Perciò siamo diventati come la Francia.
Le 24 medaglie, record assoluto per l’Italia, avranno però anche altre motivazioni…
Sì, e sono molto contento per l’attuale direttore tecnico e mio allievo Antonio La Torre. Perché non è che si schiocchino le dita o si giri l’interruttore e così nasce il campione: queste 24 medaglie sono frutto di un percorso della federazione passata e presente. Questi ragazzi non fanno atletica da oggi, ma sono stati individuati dalla federazione a 14-15 anni e sono la “generazione Baldini”: fino a tre anni fa, infatti, il commissario tecnico giovanile era Stefano Baldini, che ha lavorato in modo eccezionale con i giovani, aiutato da bei soldini, milioni di euro, forniti dalla federazione. Così, con un lavoro eccezionale, ha coltivato una generazione che oggi vince.
Resta che il balzo vincente rispetto a venti-trent’anni fa è grande. Cos’è cambiato soprattutto?
Rispetto ai miei tempi è cambiato l’atteggiamento mentale: probabilmente noi pressavamo troppo. C’era una tensione verso il risultato che diventava oppressiva nei confronti degli atleti. In quello qualcuno sbagliava. Adesso, invece, sono tutti sorridenti: questo è il merito che va dato a questa federazione e al direttore tecnico Antonio La Torre. Lui è uno che mette tranquillità e i ragazzi ne traggono giovamento anche nei risultati. Poi si potrebbe parlare delle forze armate, che permettono agli atleti di valore di fare i professionisti, dando loro uno stipendio; ma rispetto a trent’anni fa è cambiato poco. E anche per gli sponsor privati non ci sono grandi variazioni. Il sorriso è la marcia in più.
Cosa si aspetta dall’Italia alle Olimpiadi?
Saranno il vero esame, ma da questi ragazzi così sorridenti ci si può aspettare di tutto. E sul tutto non posso non mettere davanti la 4×100, che è l’emblema delle nazionali, l’emblema di un movimento sportivo. Se gli americani facessero i cambi come li facciamo noi non ci sarebbe storia: vincerebbero loro; ma dato che spesso sbagliano…
E poi?
Poi Tamberi. E il gigante Fabbri, che vive a Schio, oro a Roma nel getto del peso. E la Fantini, oro nel lancio del martello: in lei si può sperare, perché il martello femminile è regno europeo, per cui non dico che l’oro olimpico sia d’obbligo, ma ci si può arrivare.
E la Battocletti, doppio oro a Roma nei 5000 e nei 10000?
No, purtroppo, perché lì ci sono le africane e non c’è storia. Se arriva fra le prime cinque è da salti di gioia, se gratta il podio ed è quarta è un risultato eccezionale; se arrivasse a medaglia sarebbe il miracolo. E i miracoli esistono…
E Simonelli, che ha vinto a Roma i 110 a ostacoli?
Bravo, ma gli americani sono un’altra cosa. Gli americani hanno uno strapotere fisico e biologico per cui vale il discorso della Battocletti: la finale è il suo obiettivo, un quinto posto equivale a una medaglia e la medaglia vera è il miracolo.
Giorgio Malavasi