Quando è ora del turno di notte dorme sullo stesso letto di quando era ragazzo. Suo padre, quei vecchi letti dei figli, li aveva portati via con sé vent’anni fa, per trasformare una vecchia lavanderia di Mira nella casa d’accoglienza San Raffaele.
Quel papà è il diacono Ilario Albertini, che insieme all’allora patriarca Marco Cè ha dato vita a una struttura capace, in due decenni, di accogliere e riabilitare centinaia di migranti che hanno smarrito la strada. Ai tempi, il figlio Alberto di anni ne aveva 35, faceva l’architetto e, travolto dall’entusiasmo dei genitori per questa nuova avventura, si occupò del progetto di restauro dell’immobile.
Non avrebbe mai immaginato che quell’incarico, che occupava il padre notte e giorno, avrebbe finito per assumerlo anche lui, diversi anni dopo la sua scomparsa.
«Quando dormo qui – racconta Alberto Albertini, che ha preso le redini della realtà diocesana in agosto – mi sembra di avere sempre papà con me. Qui ci sono le suppellettili che abbiamo avuto noi in famiglia. Mio padre aveva messo tanto del suo, del nostro. Anche troppo. Ogni volta che faccio le notti in questa casa mi sembra di vederlo. E mi domando se faccio il giusto o meno». Questa casa in Riviera la trovò la mamma. «Tutto ricorda la mia famiglia».
E qui, da 20 anni, tanti volontari (oggi sono 78) si occupano a turno dei 25 immigrati ospiti in quel momento. «Ognuno di loro – spiega il professore di tecnologia delle costruzioni e storia dell’architettura – ha una vicenda diversa. Ci occupiamo di prima accoglienza: tre posti letto sono assegnati dal ministero di grazia e giustizia per chi vive l’alternativa al carcere. Otto sono assistiti. Il resto di loro è a carico della Caritas e di noi volontari. Questo ci permette di abbattere i costi. Paghiamo solo l’energia. E poi ci aiuta il Banco alimentare e i molti donatori. Ci occupiamo anche dell’assistenza sanitaria».
Gli ospiti sono perlopiù afgani, nigeriani, albanesi. Alcuni anche minori. Tutti vanno a scuola. In casa San Raffaele sono tenuti a collaborare nelle pulizie, nella piccola manutenzione e anche nella preparazione dei pasti. «Sono loro a far da mangiare – afferma orgoglioso l’insegnante dell’istituto “8 Marzo” di Mirano, che negli anni è stato anche segretario nazionale degli scout adulti del Masci – e questo vuol dire salvaguardare le loro radici. In un certo senso è l’unica cosa concreta che rimane delle loro origini».
Il regolamento qui è severo. Chi trasgredisce è fuori. «Non possono entrare in casa se sono ubriachi. Non possono introdurre alcolici, né tantomeno stupefacenti. Se accade sono esclusi dal progetto».
Qui i migranti in difficoltà sostano finché non riescono a riavviarsi. Possono rimanere fino ai tre anni, ma in genere, spiegano i volontari, ce la fanno a ripartire non oltre i sei/otto mesi. Su ognuno è attivo un progetto di recupero personale. «Uno di loro – ricorda con affetto Albertini – ha aperto un ristorante a New York, che sta andando molto forte».
Questa, la via segnata da suo padre Ilario, è la vera strada dell’integrazione secondo Albertini, che succede a Francesco Vendramin, che ha retto la casa dopo il diacono Ilario: «Servono realtà che possano ospitare non più di trenta persone. In questo modo riesci a conoscerle bene tutte. Cosa che non puoi certo fare con 1600 profughi in una caserma, come a Cona».
E quando la realtà è appagante, i progetti futuri si sprecano. Il suo nuovo responsabile ha già tre idee che scalpitano: «Abbiamo cominciato con dei fine settimana formativi per adulti che vogliono diventare educatori o operatori nelle case d’accoglienza. Ho organizzato due campi con amici geografi e geopolitici per cominciare con alcune lezioni sui flussi migratori. Poi sogno un collegamento con le scuole del territorio, con i ragazzi di quarta e quinta, perché con la conoscenza diretta smettano di percepire i profughi come estranei. E desidero anche creare un laboratorio, una scuola di mestieri dentro casa».
La scuola di sartoria è già partita, con i tessuti arrivati l’anno scorso dal Burkina Faso. Grazie a un ospite della San Raffaele, un sarto della Costa d’Avorio, grembiuli e vestiti tipici africani aspettano solo di essere indossati.
Giulia Busetto