Capovolto e immerso nell’acqua. L’immagine del Crocifisso di San Moisè travolto dall’acqua di quel 12 novembre 2019 ha fatto il giro del mondo. Ed è diventata il simbolo della devastazione subita da Venezia, dai suoi monumenti e dai suoi cittadini, con l’Aqua Granda. Un simbolo di caduta che ora si trasforma in immagine di rinascita. Non a caso è stata scelta proprio la data del 12 novembre per celebrare con momento di preghiera guidato dal Patriarca (a San Moisè alle ore 17,30) la restituzione del Crocifisso ligneo, dopo un accurato restauro. A farsi promotrice dell’intervento è stata la Fondazione Venetian Heritage, diretta da Toto Bergamo Rossi, che all’indomani dell’Aqua Granda ha lanciato la campagna “#supportvenice”, con la quale ha raccolto 238.262 euro: con questi fondi sono stati finanziati diversi interventi tra cui quello al Crocifisso settecentesco di San Moisè. «Un’opera preziosa, di livello artistico qualitativamente molto alto», sottolinea la ricercatrice Monica De Vincenti che ha studiato il manufatto, realizzando poi insieme a Maichol Clemente il volume “Revixit. Un capolavoro intagliato di Giuseppe Torretti restaurato da Venetian Heritage”, edito da Marsilio Editori, con le immagini di Matteo De Fina e con la relazione tecnica sul restauro eseguito da Alvise Boccanegra.
Il rivestimento in lamine di tartaruga. Proprio grazie a questo intervento è emersa tutta la magnificenza dell’opera settecentesca, caratterizzata da una figura del Cristo particolarmente espressiva e dalla preziosità della Croce, rivestita da sottilissime lamine di tartaruga: «Lo scultore Giuseppe Torretti utilizzò in maniera sopraffina una tecnica che a quel tempo era sì diffusa, ma lo fece in maniera straordinaria. Le scaglie che ricavò dal carapace di tartaruga sono spesse appena un millimetro e dato che al termine della lavorazione risultavano praticamente trasparenti, utilizzò sulla parte retrostante la foglia d’oro ad illuminarle. Abbiamo studiato altre croci processionali del Torretti e in nessuna c’è questa monumentalità, nessun’altra è così preziosa». L’opera veniva portata infatti in processione dai confratelli della Congregazione che faceva riferimento alla chiesa di San Moisè e non è un dettaglio di poco conto: «Si tratta infatti della Scuola intitolata alla festività dell’Invenzione della Santissima Croce, che si rifà al ritrovamento del sacro legno da parte di Sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, nel 327. Un sodalizio importante all’epoca, anche perché collegato all’Arciconfraternita romana intitolata al Santissimo Nome di Maria, istituita dopo la liberazione di Vienna dall’assedio turco nel 1683 ed è per questo che alla base del Crocifisso si trova il cuore con il monogramma di Maria». Era stata dunque la committenza – veneziana e romana insieme – a voler realizzare un’opera molto preziosa, che le rappresentasse degnamente in processione.
Un manufatto prezioso. E’ così che si spiega la preziosità del manufatto, dovuta non solo alla lavorazione con le scaglie di tartaruga, ma anche agli inserti di madreperla e al bronzo dorato che ne riveste le estremità… Ma tutto questo rischiava di essere deteriorato per sempre dall’acqua alta di due anni fa. Il restauro di Alvise Boccanegra invece lo ha salvato donandogli l’antico splendore, quello che provocò lo stupore e l’ammirazione del cronista della Pallade Veneta, la rivista settimanale manoscritta che il 3 maggio del 1711 in occasione della processione per la festa della “Inventio Crucis” annotò la prima apparizione, appunto, dello splendido Crocifisso opera “dell’ingegnosissimo Torretti”. «Uno scultore – ricorda la ricercatrice – che era molto richiesto all’epoca, la cui bottega era specializzata nel legno ma anche nel marmo e la cui estetica segna l’abbandono delle forme barocche, per abbracciare le linee del primo classicismo. Quello che giungerà fino a Canova». L’accurato restauro. Intagliato su legno di cirmolo, il Crocifisso processionale presentava numerosi danni da ammollo nell’acqua salata, dato che il legno si era gonfiato provocando numerosi distacchi: si è proceduto dunque con una lenta asciugatura e poi con il riposizionamento delle scaglie e degli inserti di madreperla che si erano staccate. Fortunatamente dopo l’uscita dell’acqua alta dalla chiesa sono stati pazientemente recuperati tutti i pezzetti rimasti sul pavimento. «E’ stato un restauro lungo – riferisce Monica De Vincenti – durante il quale si è proceduto anche alla separazione della figura del Cristo dalla croce per intervenire. Questo ha consentito di poter studiare a fondo il manufatto, arrivando a scoprire le tecniche di alleggerimento utilizzate per fare in modo che non pesasse troppo in processione». L’asta ad esempio era vuota all’interno, anche se in un intervento novecentesco vi era stata posta una barra in plastica per consolidarla: «Ovviamente è stata rimossa e il consolidamento è stato fatto con metodologie più rispettose». Eliminate le muffe, consolidate tutte le parti, il Crocifisso ora ha l’aspetto originario e può tornare a emozionare i fedeli, comunicando al mondo la “passione” di Venezia che vuole una volta di più risollevarsi.
Serena Spinazzi Lucchesi