Il senso e il gusto del vivere, la consapevolezza della propria fragilità ed impotenza, il profondo desiderio e bisogno di salvezza: sono questioni che accomunano tutte le persone e possono trovare risposta nella rivelazione cristiana che “se per un verso, ribadisce che il tempo non si ferma, dall’altro ci ricorda che tutto rimane perché la nostra vita è scritta in cielo dove tutto è vivo e attuale”. Ciò che conta è “la crescita in Cristo Redentore, ossia la santità. E tutto è misurato sulla carità che rimane in eterno”. Sono i temi della riflessione che il Patriarca di Venezia Francesco Moraglia offre quest’anno alla Chiesa e alla città lagunare in occasione della festa del Redentore. Ne anticipiamo qui alcuni passaggi che il Patriarca riprenderà più ampiamente durante l’omelia della Messa solenne in programma domenica sera (21 luglio 2019), alle ore 19, nella basilica del Redentore alla Giudecca.
«Celebrare la festa del Redentore significa avvertire un bisogno di salvezza e percepire nella vita personale, familiare e sociale tutta la propria fragilità e impotenza.
Che senso assume una vita comunque destinata a finire? Tutto prende una prospettiva diversa – amicizia, lavoro, ricerca del bene comune, famiglia, figli ecc. – nel momento in cui diventiamo consapevoli che questo, certamente, verrà meno. E la questione del senso della vita, sempre ardua, diventa drammatica quando è posta senza la possibilità d’indicare “Qualcuno” che sia in grado di rispondere.
La rivelazione cristiana dice che tutto ha origine dalla comunione di tre Persone che da sempre si donano in termini di coscienza, libertà, amore. Il noi personale ed eterno di Dio è il solo fondamento capace di dare senso a tutti gli esseri (materiali e spirituali) che non trovano in sé la risposta ultima al loro esistere.
Se noi smarrissimo il senso del vivere e non sapessimo più rispondere alle domande prettamente umane – “da dove veniamo?”, “dove siamo diretti?” -, allora non sapremmo più rispondere neanche alla domanda “chi è l’uomo?”. Diventeremmo un terreno di conquista per ogni ideologia, per le idee più balzane e le differenti forme di superstizione (a partire dagli oroscopi) e, soprattutto, l’esistenza diventerebbe invivibile.
Il “senso” è il primo nutrimento dell’intelligenza e dell’anima umana; all’inizio di molti tunnel – a cui la psicologia e la psichiatria danno nomi diversi – vi è la questione del senso, l’aver smarrito il senso della vita e aver perso le motivazioni del vivere. Oggi talune fragilità, come anche alcune dipendenze (da droghe, alcool o gioco), iniziano proprio qui.
Mentre per le questioni etiche e teologiche si trova in genere indifferenza, pigrizia o superficialità, quando invece la domanda riguarda la propria situazione personale, il proprio futuro o la propria salvezza l’atteggiamento diventa diverso.
Anche gli uomini più disinteressati, di fronte alle domande sul senso della vita, su cosa c’è dopo l’esistenza terrena e se esista una salvezza eterna, appaiono più partecipi. Se si è personalmente coinvolti e si avverte che la propria vita è realmente minacciata e il rischio è di perdere la vita, allora si parla meno, si ascolta di più e si è interiormente più ben disposti.
L’uomo avverte tutta la fragilità e il bisogno di salvezza quando si sente minacciato nell’integrità fisica o quando avverte di aver smarrito il senso e il gusto del vivere. Solo chi l’ha provato può raccontare questo dramma; è ciò che chiamiamo angoscia, ansia, inquietudine o depressione, situazioni di vita che oggi, più che nel passato, accompagnano l’uomo. E ci sarà bene un perché.
C’è chi si trova in situazioni personali, familiari o lavorative drammatiche eppure possiede animo, coraggio, voglia di lottare e riesce a trovare la strada per uscire da situazioni impossibili o disperate. C’è, invece, chi pur non mancando di nulla – affetti, lavoro, salute – ha smarrito il senso e il gusto del vivere e, così, si trova in balia di una sofferenza oscura, sorda e più grande di lui che lo domina e distrugge.
La domanda circa la salvezza personale – intesa come la questione del “senso” – riguarda sia le persone che si ritengono non “realizzate” o fallite sia quelle che si considerano “realizzate”. Chi appartiene al primo gruppo ritiene di vivere un’esistenza infelice ed è, quindi, insoddisfatto, sempre in attesa di qualcosa; chi poi appartiene all’altro gruppo, quello dei “realizzati” e magari invidiati dagli altri, sente di aver raggiunto traguardi, successi e gratificazioni ma vive nel timore o terrore che tutto gli sia tolto.
Sì, tutto passa! E, certo, si può cercare di nascondere la realtà ricorrendo a differenti interventi dai più soft ai più invasivi, fino, ad esempio, la chirurgia estetica (talvolta, azzardando troppo, si cade anche nel ridicolo…) ma la carta d’identità e quei numeri che dicono la nostra data di nascita rimangono sempre e impietosamente gli stessi.
La rivelazione cristiana ci indica una strada che, se per un verso, ribadisce che il tempo non si ferma, dall’altro ci ricorda che tutto rimane perché la nostra vita è scritta in cielo dove tutto è vivo e attuale.
La liturgia della Chiesa ci ricorda che il vero computo del tempo non è quello che segna l’anno solare o sociale ma l’anno liturgico dove il passare degli anni, dei mesi e dei giorni non è uno scorrere meccanico ma la crescita in Cristo, ossia la santità. E tutto è misurato sulla carità che rimane in eterno.
Impegniamoci allora a vivere di più secondo la spiritualità del Cantico delle Creature, accettando la nostra vita così com’è, con le sue stagioni, la sua primavera e il suo autunno, in modo da gioire della creaturalità. Questo vuol dire apprezzare il piano di Dio che riguarda anche il nostro corpo e che ci salva nel Figlio suo Gesù, oggi invocato da noi col bel titolo di Redentore».